Victoria, la serie TV: l’incontro con la sceneggiatrice Daisy Goodwin

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Lo scorso giovedì ho avuto l’onore di partecipare a un evento esclusivo organizzato dall’ambasciata britannica a Villa Wolkonsky, la residenza dell’Ambasciatore Jill Morris. La serata era dedicata alla serie Victoria e impreziosita, oltre che dalla magnifica location perfettamente in linea con le atmosfere della serie, dalla presenza della sceneggiatrice e produttrice Daisy Goodwin. Dopo un buffet iniziale, l’evento si è aperto con la proiezione del primo episodio della terza stagione di Victoria; successivamente l’Ambasciatore ha intervistato Daisy Goodwin per analizzare i tratti più significativi del personaggio di Vittoria che l’hanno resa unica in quanto regina, donna, moglie e madre. 

La conversazione si è aperta con una riflessione sull’importanza del ruolo della stessa Daisy rispetto alla produzione della serie. Un ruolo che si è rivelato dirompente nel panorama delle serie TV, in quanto segna la prima occasione in cui una figura femminile leggendaria come quella di Vittoria è raccontata da una donna. Pertanto, spiega Daisy, il suo primo obiettivo è stato quello di infondere la sensibilità femminile nel suo lavoro di sceneggiatrice .

Gli uomini di solito sono più che altro interessati alle dinamiche relative alla monarchia, certamente un concetto affascinante, ma che mi premeva affiancare all’approccio con cui Vittoria ha portato avanti la sua vita di donna oltre che di regina.  Molto spesso sottovalutiamo quanto possa essere stato complesso rimanere fedele ai propri doveri di madre ed essere allo stesso tempo sovrana di un paese, tra l’altro in un periodo molto complesso. Per fare un esempio, la puntata che abbiamo visto oggi ci riporta al 1848, un anno particolarmente difficile per tutta l’Europa, e Vittoria stava per partorire nuovamente. Guardandoci indietro ora sappiamo come sono andati i fatti, ma al tempo lei e la sua famiglia credevano davvero di avere i giorni contati.

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Photo credit: BBC UK

Molto spesso si tende a pensare che l’unico modo che le donne hanno di  gestire una posizione di potere sia quello di comportarsi come uomini. Vittoria si è comportata come un uomo o è rimasta fedele alla sua identità di donna?

Una delle ragioni per cui amo così tanto Vittoria è che mai nella sua vita ha finto di essere qualcosa che non era. È stata la quintessenza di una donna.  Sai, mentre scrivevo la sceneggiatura avevo sempre in mente l’immagine di questa piccola donna circondata da uomini altissimi che tentavano di dominarla, come fossero stati una foresta di vecchie betulle sempre lì ad accerchiarla, eppure non è mai scesa a compromessi. Spesso si diceva che le regine di successo erano quelle che sapevano comportarsi come dei re, ma lei non aveva alcun interesse a sembrare un re, voleva essere una regina. E non si è risparmiata in nessuna delle cose che ogni donna avrebbe fatto: si è sposata mentre era al trono e addirittura ha avuto nove bambini. È stata la prima regina a farlo! Non è affatto una cosa scontata: per molte donne il matrimonio era una scelta obbligata, sebbene non fosse certo la loro miglior alternativa. Questa è solo una delle tante contraddizioni che rendono così affascinante l’età vittoriana. Anche in molti altri episodi Vittoria si è dimostrata una regina atipica per esempio, quando uscì a cavallo per celebrare i cinquant’anni del suo regno, il Primo Ministro le consigliò di indossare la corona ma lei si rifiutò, dicendo che non ve n’era alcun bisogno poiché tutti sapevano chi fosse.

Quando le donne non fanno quello che gli uomini vogliono, vengono definite isteriche.

Isterica è una parola che viene dal greco “hysterikós” e significa “uterino”. Pertanto è applicabile solo alle donne.  È un paradosso molto curioso che in un paese con una tale considerazione per le donne fosse proprio una donna a tenere le redini. 

La serie esplora anche quello che accade alla servitù, ai piani inferiori.

Esatto, mi sono molto interessata a tutto quello che esula dalle dinamiche della monarchia. Anche lo stesso matrimonio con Albert è stata una scelta molto significativa. Generalmente le donne si sposavano per migliorare la loro posizione, ma una donna come lei aveva il suo status e certamente non avrebbe avuto alcun bisogno di un uomo. Non dimentichiamo che il matrimonio portava con sé la conseguenza pressoché inevitabile di una gravidanza, e la esponeva al grande pericolo della morte durante il parto, disgrazia comune a molte donne nell’età vittoriana. Vittoria amava tantissimo suo marito e non vedeva l’ora di sposarlo, ma non dimentichiamoci che ha avuto nove bambini. Insomma, nove bambini! Deve avere avuto un’energia straordinaria.

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Quale impatto ha avuto la figura di Vittoria sulle donne del suo tempo?

È una questione interessante poiché Vittoria non era una femminista. D’altra parte non aveva di certo bisogno di votare, era la persona più potente del paese, ma una donna con bambini sempre in prima linea in tutte le questioni dello Stato ha senz’altro avuto una valenza simbolica. Vittoria era proprio questo: un simbolo per le donne, la sua semplice presenza ha dimostrato loro che avrebbero potuto essere qualsiasi cosa desideravano, che anche per loro c’era speranza di diventare medici o architetti. E non solo, avrebbero potuto esserlo pur essendo mogli e madri. Sappiamo però fin troppo bene che questi discorsi sono molto attuali e son dovuti trascorrere almeno altri 100 anni dalla fine del suo regno perché questi valori diventassero per lo meno accettabili.

Photo credit: BBC UK

Parlando della storia d’amore con Albert, è interessante riflettere sulla figura dell’uomo nella coppia. In diverse puntate lo vediamo preoccuparsi di quella che sarà la sua posizione, di quel che sarebbe diventato sposando la regina, conscio che non sarebbe mai stato re ma solo il marito della regina. Anche questo suona come un argomento molto attuale, visto che sono sempre più le donne con una carriera più importante rispetto a quella del marito. Che cosa rivelano in questo senso i diari di Vittoria?

Vittoria è sempre stata consapevole che Albert avesse bisogno di un titolo e uno status ben definito. Si trattava infatti di un uomo particolarmente intelligente, oggi lo si potrebbe addirittura considerare uno dei reali più geniali della storia d’Inghilterra. Lei sapeva di non dover rinunciare al suo potere ma allo stesso tempo non poteva che lasciare il giusto spazio ad Albert. In sostanza lui diventa a tutti gli effetti il suo segretario privato e nasce una collaborazione professionale di grandissimo successo. Albert portava avanti un gran numero di progetti, ha avuto un ruolo chiave durante la Grande Esposizione e si impegnava regolarmente a supportare scuole, orfanotrofi e altre istituzioni. È diventato in un certo senso il volto pubblico della monarchia. La regina ha tentato sin dal matrimonio di fargli avere il titolo di re consorte, ma le fu impedito principalmente perché Albert era tedesco e gli inglesi non avrebbero sopportato un tale affronto. In generale però sono riusciti a mantenere sempre un ottimo equilibrio di coppia. Nei suoi diari lo descrive spesso come “My dearest darling angel Albert” puntualmente dopo una tremenda lite, e l’impressione che mi dà è che sapeva benissimo che Albert leggesse il suo diario, quindi si trattava di una strategia per scusarsi senza necessariamente doversi esporre a voce o in pubblico, cosa che trovo assai furba. Quindi diciamo che per scoprire il ritratto del loro matrimonio occorre leggere tra le righe dei suoi diari.

Che cosa avrebbe pensato Vittoria della Brexit?

Senz’altro sarebbe stata contraria. In ogni modo, in qualsiasi forma di unione europea che si sarebbe potuta formare al suo tempo, lei stessa avrebbe ricoperto un ruolo cruciale, probabilmente in testa a tutto il progetto. 

Il suo regno è stato particolarmente longevo, come è cambiata la sua popolarità nel corso degli anni?

Molto spesso si sono alternati momenti di grandissima popolarità a periodi di malcontento. In generale c’è tutt’ora la tendenza a prendersela con il nuovo regnante più o meno un anno dopo la sua elezione. Anche allora la gente era propensa a lamentarsi di qualsiasi scelta del sovrano, sembrava davvero che quella poveretta non ne potesse fare una giusta.  Dopo la morte di Albert si ritirò in lutto per sei anni, senza mai farsi vedere in pubblico. Superò anche un periodo in cui andammo molto vicini a sbarazzarci della monarchia. Per non parlare della stampa che ci andava giù pesante, esattamente come fanno oggi. Eppure alla fine del suo regno alcuni credevano che il mondo sarebbe finito: in tantissimi dopo la sua morte non si ricordavano nemmeno più che cosa significasse vivere in un paese governato da un sovrano diverso da Vittoria, altri addirittura non avevano mai vissuto un paese senza la regina Vittoria.

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Che cosa possiamo aspettarci dalla quarta stagione? 

C’è un salto temporale dopo la Grande Esposizione e… Vittoria diventa madre di adolescenti, potete immaginare? Succedono talmente tante cose… i fatti li potete trovare su Wikipedia ma per emozionarvi davvero dovrete attendere le nuove puntate.

Collezionare autografi nell’Ottocento – l’immensa collezione di Adrian Joline

Se c’è un fascino a cui non riesco proprio a resistere, è quello delle lettere antiche. Bastano l’eleganza di un grafia signorile, un mistero talvolta celato da poche indecifrabili righe, ed ecco che mi pare impossibile non tuffarmi indietro nel tempo e immaginare quella dama, o quel gentiluomo abbigliato di tutto punto, seduto alla scrivania al lume della candela. Ma di certo non si tratta di una passione insolita nè moderna: da secoli l’uomo colleziona manoscritti, lettere e autografi. Durante i miei vagabondaggi online, mi sono imbattuta in un volume intitolato Meditazioni di un collezionista d’autografi scritto da un avvocato di New York di nome Adrian R. Joline nel 1902. Inevitabilmente dopo qualche giorno era tra le mie mani. 

Il libro è scritto “negli intervalli di piacere di una vita lavorativa”, in un pomeriggio di pioggia, con i libri e la collezione a portata di mano. Joline vive in una casa ormai straripante, che da 10 anni continua a mettere in ordine, eppure nulla è mai in ordine. Il racconto non segue un ordine logico, è una sorta di interminabile flusso di coscienza in cui l’autore si perde tra considerazioni, descrizioni, ricordi e riflessioni, insomma ci mette a parte di ogni emozione scaturita dai pezzi migliori della sua collezione, senza filtro. 

Ma quali autografi avrà mai potuto collezionare nel 1902? Va premesso che il libro non riporta una lista dei suoi pezzi di maggior valore, ma i suoi pensieri privi di logica disseminano per tutto il volume dei dettagli che lasciano a bocca aperta. Quindi, lasciate che vi stupisca. Tra i manoscritti in suo possesso, una lettera della Regina Vittoria a Lord Melbourne, una di Napoleone III, di John Keats, Edgar Allan Poe, Charles Darwin, Walt Whitman, T. N. Talfourd, Charles Reade, Mark Lemon, Charles Lamb, Leigh Hunt, Florence Nightingale, Jonathan Swift, Washington Irving; il manoscritto completo di Black di Dumas figlio, “Fini le 24 Novembre à 5 heures du soir – A. Dumas” e ben 7 pagine di un manoscritto allora inedito di Edgar Allan Poe. 

La prima cosa che salta all’occhio dall’elenco incredibile –– oggi degno del più prestigioso dei musei –– è che il “vero” collezionista di autografi nell’Ottocento collezionava lettere, insomma autentici manoscritti, non semplici firme. Joline è un fedelissimo, tanto devoto all’altare dell’arte autografica, che è risentito ogni qualvolta la si tratti senza rispetto. Cominciare, oggi come allora, era semplice: soltanto confrontandosi con la ricerca dei pezzi più rari si cominciava a comprendere la gravità della situazione in cui ci si era cacciati e a “nutrire un profondo senso d’inadeguatezza”.

Ma quanto poteva costare un pezzo mediamente raro? Joline ci parla approssimativamente di 80 $, che oggi corrisponderebbero più o meno a 2.000 €, il che ci mostra che il valore di mercato per questi oggetti è rimasto per lo più invariato, se consideriamo il prezzo medio di lettere di una, massimo due facciate, dei grandi autori ottocenteschi. Tra tutti i campi, quello della letteratura era anche allora ritenuto il più affascinante, eppure i pezzi più costosi erano quelli dei politici, poiché generalmente il vero collezionista che decideva di avventurarsi in quel campo si lanciava alla raccolta di manoscritti di tutti i politici di uno specifico partito, governo o similari, ritrovandosi a combattere per compiere l’impresa impossibile di completare il set. E i più rari non erano i più famosi: per esempio, Washington era costoso ma non raro. Chiunque conservava le lettere di un uomo costantemente sulla cresta dell’onda per decenni, ma solo pochi serbavano quelle di personaggi acclamati per poco tempo e poi dimenticati.

Joline ci racconta di numerosi saggi e volumi interi dedicati a questa “febbre” e alla sua nascita, che ci porta sino quasi all’origine dell’umanità civilizzata: pare che nel terzo secolo a.C. Tolomeo III promise di procurare grano agli ateniesi solo se gli fosse concesso di prendere in prestito i manoscritti originali di Eschilo, Sofocle e Euripide per farne delle copie, cosa che accadde, con la conseguenza che furono restituite le copie e mai gli originali. Joline non può che comprende tale follia, ben conscio che il collezionismo alimenti l’invidia, l’odio, il rancore e la scortesia, poiché il collezionista non può non essere geloso della collezione altrui. Joline non prende in prestito, perché conosce bene la tentazione a cui si troverebbe esposto; non presta perché nessuno più di lui è avvezzo alle cattive abitudini della sua “specie”. Non biasima pertanto chiunque veda il collezionismo come “una stranezza a cui si concedono uomini saggi senza alcuno scopo serio, e per la quale si dispiacerebbero se solo si fermassero a riflettere”, ma sa altrettanto bene che in sé l’interesse per gli autografi non ha nulla di terribile o strano. Propriamente coltivato, è uno dei sentimenti più nobili. 

Spesso succede che il vero collezionista cada nel grave errore di sentirsi affranto al ricordo dei metodi spesso sgradevoli adoperati dagli “pseudo–collezionisti”. Un collezionista serio non scrive mai a nessuno per richiedere un autografo, a meno che non si tratti d’una personale conoscenza. Chiedere autografi era una moda che si accompagnava a banali espedienti ben noti a tutti i grandi personaggi: qualcuno s’inventava che fosse “per la sua signora”, altri chiedevano l’anno di pubblicazione di una certa opera, altri ancora manifestavano l’impellente necessità di conoscere l’indirizzo di un intimo amico del suo corrispondente. Va anche ammesso però, che laddove molte star ignoravano tali richieste mentre altre le onoravano con umiltà, v’erano anche i finti modesti che, nel momento stesso in cui rispondevano per esporre il loro disappunto, onoravano la richiesta. Lascia inoltre perplessi immaginare che molti si avventurassero a mutilare i manoscritti ritagliando la firma dal resto della lettera, violandola in maniera del tutto irrazionale e ingiustificabile, spiega Joline.

Non sappiamo con esattezza da quanti anni Joline collezioni, quel che è certo è che dalle sue riflessioni scopriamo che molti, come lui, hanno portato avanti la stessa passione per decenni, provando a chi considerava il collezionismo una semplice “bolla”, che si sbagliava di grosso. Joline ci ricorda che, come tutti i veri hobby profondi e sentiti, è difficile scrollarselo di dosso. Prende anzi in prestito una citazione di un certo Signor Evarts secondo il quale “la differenza tra un cavallo e un hobby è… tutta la differenza del mondo! Si può scendere da un cavallo, ma non si può scendere da un hobby!” Un hobby: la salvezza della società moderna, quella fiamma che ci assicura momenti di gioia e ci protegge dalla monotonia della vita. E l’emozione che prova il collezionista quando accoglie un nuovo pezzo, sia che l’abbia ricevuto in dono, gli sia arrivato direttamente dall’autore o l’abbia acquistato, be’ è troppo sacra per essere raccontata. E non gli serve diventare popolare raccogliendo lodi e menzioni sui giornali, perché certe frivolezze non portano che una gioia transitoria, mentre quella del collezionare è eterna

Joline non può fare a meno di chiedersi se la “mania della dattilografia” avrebbe continuato a impossessarsi dell’umanità. I grandi uomini del suo tempo ormai non scrivevano più lettere, limitandosi a dettare i propri pensieri agli stenografi e portando i poveri collezionisti a non avere strumenti per verificare se il triste prodotto di quelle infernali macchine da scrivere non fosse semplicemente stato firmato da un segretario qualsiasi, magari addirittura non a mano, ma con un timbro di gomma. Non gli pareva poi così difficile immaginarsi Washington, Jefferson o John Adams degradare in tal maniera l’arte della corrispondenza. Definisce la macchina da scrivere come “la distruttrice dell’universo autografico, la fossa del collezionismo artistico e la tomba dell’ambizione”

Ma la macchina da scrivere non è l’unico ostacolo che il collezionista trova lungo il suo cammino. La sofferenza più grande si abbatte sul povero disgraziato quando altre passioni, come quella per i ritratti o le illustrazioni, lo portano fuori dai binari. A quel punto non gli resta che imporsi severamente di rimanere fedele a un’unica passione e non esporsi a ricerche pericolose. Ogni deviazione non fa che dividere l’attenzione, disperde le energie e sparpaglia le forze del fremente cacciatore. Per Joline è meglio non tuffarsi nella raccolta di illustrazioni da affiancare alle lettere anche per mantenerne l’individualità, dato che un’illustrazione sembra sottrarre qualcosa all’assoluta purezza di un manoscritto, a meno che non si tratti di un ritratto rarissimo.

Il secondo, terribile, motivo di disagio è il terrore di possedere dei falsi. Il più famoso falsario di autografi del XIX secolo pare fosse un certo Robert Spring, morto nel 1876, che si adoperò per produrre copie delle firme di molti grandi scrittori. Ai tempi di Joline tuttavia la vera minaccia non erano più i falsi, poiché produrne di convincenti era costosissimo, piuttosto gli omonimi, oppure le copie redatte da altre mani. Gli sarebbe di certo piaciuto uno statuto per impedire a due personaggi di spicco di chiamarsi (e firmarsi) allo stesso modo! Una volta che nel collezionista si instilla il dubbio circa un pezzo, tutto è perduto. 

Ma la più grande, insormontabile paura del collezionista, è quella della fine. Perché oggetti tanto preziosi sono destinati a sopravviverci, e un giorno il nostro ruolo di custodi temporanei finirà. 

Nessuna mai sarà così profondamente affezionato ai miei tesori quanto lo sono io, e in un giorno poco lontano saranno dispersi tra i partecipanti di quell’asta inevitabile che attende ogni collezione –– salvo quelle destinate all’eterna sepoltura in una biblioteca. Il mio legame con essa sarà perso e dimenticato. Li guardo come un genitore guarderebbe un figlio che gli tocca lasciarsi alle spalle. Con la differenza però che un figlio potrà serbare il ricordo dell’affetto ricevuto, mentre i nostri amati manoscritti e i libri rimarranno per sempre perfettamente inconsapevoli dell’amore con cui sono stati preservati. Un libro raro di tanto in tanto conserva i segni d’un proprietario devoto, mentre un manoscritto raramente richiama alla memoria il fortunato possessore. […] Confido che possano finire nelle mani di un vero collezionista, un autentico antiquario […] in grado di apprezzare un oggetto degno dell’affetto d’un appassionato di letteratura e storia.

Joline morì nel 1912 e tra il 15 e il 18 dicembre del 1914 la sua collezione fu messa all’asta.  Con il cuore spezzato ho fatto alcune ricerche che mi hanno rapidamente condotta al catalogo, che potete leggere cliccando qui. Migliaia di manoscritti dei più grandi dell’Ottocento, che hanno continuato a vivere in altre mani, e ad allietare altri cuori, per decenni ancora. Secoli, speriamo. Intanto a noi basta chiudere gli occhi per sentire la passione di Joline che vibra ancora tra le pieghe del tempo.