“A dispetto della proverbiale popolarità degli uomini in divisa fra il genere femminile, in media solo al 5% dei soldati è consentito accedere al vincolo del matrimonio”. È con questo dato sorprendente che si apre un articolo, scritto a quattro mani da Henry Morley e W. H. Wills intitolato Le mogli dei soldati, comparso il 6 settembre del 1851 tra le pagine della rivista Household Words diretta da Charles Dickens.
Nell’immaginario collettivo spesso proposto dai film in costume, la poeticità dell’amore sancito dal matrimonio aumenta il pathos della separazione ed eleva la tragicità d’un incerto – e forse poi non tanto incerto – destino d’una giovane coppia. Ecco però che il suddetto articolo spezza la magia e ci riporta alla cruda realtà dell’epoca vittoriana, che in questo caso aveva davvero ben poco di romantico.
Per sposarsi, i soldati semplici avevano infatti bisogno di un permesso speciale dal proprio comandante, senza contare lo stipendio fin troppo misero perché consentisse di far fronte a tutte le spese legate alla vita matrimoniale. Nello specifico, l’articolo ci racconta che “Lo stipendio settimanale di 7 scellini e 7 pence”, equivalente a circa 47£ odierne, di certo non alimentava “l’entusiasmante prospettiva d’una felice vita matrimoniale”. Né, a dirla tutta, era abbastanza da garantire a un uomo single una vita dignitosa, poiché accadeva nella maggior parte dei casi che una percentuale delle spese legate ai viveri e all’abbigliamento fossero proprio a carico del soldato. Nelle occasioni più fortunate, l’esercito provvedeva all’alloggio e a “un cappotto, un berretto, un paio di stivali e un paio di pantaloni”.
Ma come se la cavava quel 5% che decideva, sfidando ogni difficoltà, di prender moglie? Purtroppo la prima sfortuna, non tanto per il marito quanto per la moglie, era legata all’alloggio. L’esercito – come a questo punto si può ben immaginare – non forniva un supporto economico che consentisse alle mogli dei soldati di vivere in alloggi dignitosi, vicine o lontane dal consorte, ma permetteva loro di dormire all’interno delle baracche insieme ai soldati, e parliamo in media di venti o trenta di loro. Esatto, avete capito bene: se la poveretta voleva un posto dove stare, era costretta ad alloggiare insieme a decine di uomini, e tra di loro doveva anche spogliarsi e vestirsi, senza un briciolo di privacy. Nel casi più fortunati, le era permesso di appendere un lenzuolo a mo’ di tenda per ritagliarsi un angolino per sé.
La conseguenza peggiore della permanenza prolungata di queste donne all’interno delle baracche si verificava però al ritorno alla vita “civile”: una tale condizione, in cui una donna condivideva lo spazio con una quantità d’altri uomini, era vista come sicura causa di smarrimento e perdizione, pertanto anche la più pura delle fanciulle si tramutava, agli occhi di chi la conosceva, in una prostituta a tutti gli effetti.
L’accusa era certo ingiustificata, ma che una vita del genere portasse le donne ad assumere delle abitudini lontane dal buon senso e dal buon costume era purtroppo una realtà. L’articolo ci racconta che molto spesso le donne si ingegnavano in ogni modo possibile per racimolare qualche soldo: alcune semplicemente sbrigando le operazioni di lavanderia per conto dei soldati, altre invece si davano alla vendita illegale di vino e liquori d’ogni genere (la foto in alto, scattata nel 1855 e parte della collezione del National Army Museum, raffigura una delle donne che seguirono l’esercito durante la Guerra di Crimea).
Pare infatti che che la Gran Bretagna spendesse molto più per il mantenimento di un carcerato, che per la dignità della moglie d’un soldato. Un paese, insomma, allora degno per molti versi del suo nome, ma sempre segnato dalle più profonde contraddizioni.
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